Vino sulla Mensa Romana
Per i Romani il vino non ricalcava la tradizione dell'invasamento religioso tipica della cultura greca (simposio) dove colui che beveva era posseduto dal vino e dalle divinità (Eros, Dionisio o le Muse). Nel banchetto romano si presentava simultaneamente la carne ed il vino, identificando quest'ultimo come una bevanda e non una droga.
Nella Roma delle origini, il vino rappresentava se non una rarità, almeno un lusso. Berlo era considerato un privilegio dei capi famiglia e dei maschi adulti, sottoposto a concessione per le mogli e precluso alle donne nubili.
Il vino costava troppo, bisognava centellinarlo, e perciò si allungava mescolandolo (da qui “mescere”) con acqua calda in capienti coppe. Puro si consumava solamente come farmaco e per le libagioni votive.
Quando Roma, a seguito delle conquiste territoriali, incrementò il volume degli scambi l’umanità più diversa iniziò a rifocillarsi di vino nelle taverne che si aprivano nelle strade delle città. Il vino veniva servito caldo, accompagnato da cibi che, già pronti, potevano essere mangiati con facilità. Una ostentazione di ricchezza era invece, bere il vino raffreddato facendolo passare attraverso la neve. Il lungo invecchiamento era considerato irrinunciabile per i vini destinati alle mense importanti, come testimonia Petronio, nella cena di Trimalcione, citando un Falerno vecchio di cento anni.
A Plinio, autore tra l’altro di un esauriente catalogo di vini italiani ed esteri, si farebbe ascendere la paternità del celeberrimo detto “in vino veritas”, riferito sia alle virtù medianiche conferite dall’ebbrezza, che alle facilità di parola generata da una bevuta.
Furono i militari romani, tra i migliori estimatori del vino, ad esportare la coltivazione della vite in Europa settentrionale, prima liberamente poi seguendo precise regole dettate dagli imperatori, impiantandola in aree oggi famose e rinomate come Bordeaux, Borgogna, Loira e Champagne.
Oggi è difficile farsi un'idea del sapore del vino di allora.
Gli haustores, i someliers dell'epoca, classificavano i vini in un'infinità di modi (dolce, soave, nobile, prezioso, molle, delicato, ecc.), dimostrando così di avere un palato sensibilissimo. Il vino si mesceva in coppe larghe e quasi piatte. Prima di iniziare un banchetto, vi era l'uso di eleggere, sorteggiandolo ai dadi, un "magister bibendi". Costui, che doveva astenersi dalla bevanda, aveva il compito di stabilire quante parti di acqua, calda o fredda, vi si mescolavano.
Le diluizioni preferite, dopo aver scartato quella metà acqua e metà vino, giudicata pericolosa, erano quelle chiamate “a cinque e tre”. La proporzione a cinque era formata da tre quarti d’acqua e due di vino; quella a tre, invece, da due parti d’acqua per una di vino.
All'inizio si servivano i vini migliori come il Falerno “rosso cupo”, mentre man mano che il convivio procedeva, si mettevano in tavola quelli sempre più scadenti. Molti predicavano, come Plinio, che il vino doveva essere puro, ma i “raffinati” della tavola, usavano misture d’ogni tipo. La più comune era quella fatta con l’aggiunta di miele, al fine di ottenere il vinum mulsum ritenuto assai prelibato. Altre misture erano realizzate con pece, resine, profumi femminili, acqua marina e addirittura cloruro di sodio o gesso.
Durante la giornata ogni scusa era buona per bere un buon bicchiere di vino. Si brindava alla salute di un amico, di una persona importante o della donna amata e in questo caso si bevevano tante coppe, quante erano le lettere che ne componevano il nome.